"Vi siete mai chiesti quale desolazione e che sconforto può suscitare la notizia dell’assunzione con la qualifica di “fanalista” in un Faro?
Per loro natura i fari sono posti in luoghi difficilmente accessibili e assai poco frequentati.
Il senso di solitudine probabilmente fu la prima sensazione di Filippo Vitiello di famiglia “fanalista” originaria dell’isola di Ponza.
Quello che accadde il 15 settembre 1953 può essere confrontato con l’idea che vi siete fatti della vita che si trascorre in un faro, nel Faro di Punta Scorno all’Asinara.
Quel martedì non fu una giornata tranquilla al faro, anzi…
Prima di iniziare il racconto una premessa è doverosa.
La vicenda è stata da me appresa per merito del nipote di Filippo Vitiello, il Sig. Antonello Lauro, figlio di Antonio Lauro e di Assunta Vitiello una delle sorelle, l’unica che non partecipò al salvataggio.
Antonello, con una caparbietà encomiabile, ed un affetto sconfinato per la propria origine e per l’Asinara, ha ricercato i documenti originali e le foto d’epoca che ritraggono i protagonisti della vicenda tra cui il manoscritto del padre che si riporta solo parzialmente.
Ma prendiamo a scorrere lo scritto di Patrizia, una nipote di Filippo Vitiello…
Svegliarsi prima dell’alba era la regola per la famiglia Vitiello, ma il 15 settembre 1953 c’era un motivo in più per saltare giù dal letto: sarebbe infatti arrivato l’abito da sposa di Elisa, secondogenita del farista Filippo. Anche la madre Giuseppina e le tre sorelle Ida, Assuntina ed Anna avrebbero ricevuto quel giorno i loro abiti da cerimonia.
Bisognava rendere il faro accogliente per gli ospiti che avrebbero partecipato al pranzo di nozze, e di questo si sarebbero occupate Giuseppina, Elisa ed Assuntina.
Ida ed Anna, invece, avrebbero accompagnato il padre in una battuta di pesca.
Filippo era un appassionato pescatore, anche abilissimo nel costruire da sé le nasse, utilizzando i giunchi che raccoglieva girando per l’isola e unendoli con la “cucella” (termine napoletano che indica un tipo di ago).
In mattinata Fausto Maurelli, il promesso sposo di Elisa, e Giuseppe Grieco, due dei quattro faristi che in quel periodo lavoravano al faro, si incamminarono verso il paesello di Cala d’Oliva con l’incarico di ritirare i preziosi abiti e fare un po’ di spesa per le famiglie dei faristi.
Il mare era calmo ed il cielo limpido, a maestrale si vedeva però una striscia di vento sfrangiata, che l’esperto marinaio chiama “coda di jatta”, e a Filippo, abituato fin da bambino a scrutare il cielo, questa indicava un possibile peggioramento delle condizioni meteo marine, per questo decise di lasciare al largo le sue nasse, senza avvicinarle “sottocosta”.
Sapeva bene Filippo che quando tira un leggero maestrale, le aragoste tendono a spingersi sottocosta dove trovano più facilmente il cibo. Per un verso, ciò rende possibile ai pescatori un’abbondante pesca, ma se il maestrale dovesse rinforzare … addio nasse!
E Filippo, che pescava solo per le necessità della famiglia, preferiva sempre non correre questo rischio.
Come al solito, anche quel giorno diverse barche di pescatori di Stintino affollavano le acque al largo del faro.
Verso le due del pomeriggio, Filippo e le due figlie rientrarono, ancorarono la barca a motore legandola al pontile a poppa e a prua, come facevano sempre, anche quando il mare era calmo come l’olio, e si unirono al resto della famiglia per il pranzo.
Nel primo pomeriggio, guardando il cielo, Filippo disse: “Questo tempo non mi convince, andiamo a tirare le barche in secca”. Lasciarono a metà circa dello scalo soltanto la barca a motore usata al mattino e quella più piccola a remi, quindi rientrarono al faro.
Qualche ora dopo Filippo espresse nuovamente la sua preoccupazione: “Mi sembra che il tempo stia facendo una mossa in peggio, andiamo a mettere le barche più in alto, perché se non lo facciamo adesso, rischiamo di doverlo fare stanotte”.
Il mare era ancora abbastanza calmo, ma in lontananza si vedevano grossi nuvoloni neri avvicinarsi lentamente da maestrale, era una massa nera compatta, molto minacciosa. Spostarono quindi le barche più in alto, al di là del casotto, dove era stato creato uno spazio apposito.
Iniziò a piovigginare. Filippo ed Elisa restarono giù, nei pressi della palazzina dove sarebbe andata a vivere Elisa dopo le nozze, ad aspettare il ritorno di Fausto e Giuseppe. Assuntina con il fidanzato Antonio (Nino) Lauro, figlio del quarto farista Antonio, e sua sorella Marisa, cercarono riparo dentro il casotto, vicino al pontile.
Ida, Anna e Titti, l’altra sorella di Nino, decisero di tornare al faro. Durante il percorso, si alzò all’improvviso un fortissimo vento di maestrale, e quella che era una pioggerellina si trasformò in acquazzone.
Il cielo si fece subito nero, le tre ragazze cominciarono a correre. Mentre affrontavano l‘ultimo tratto della salita, sentirono delle grida e intravidero la madre Giuseppina che, affacciata a una delle finestre del faro, quella rivolta a maestrale, urlava loro: ”S’è affunnata ‘a varca d’é piscature, là, a tramontana … a tramontana!”.”
Giuseppina, poco prima, sentendo delle grida provenire dal mare, si era affacciata alla finestra della cucina, quella rivolta a tramontana e, illuminata dai raggi del faro, aveva visto la barca dei pescatori di Stintino capovolta..
I nuvoloni ed il calar della sera rendevano scarsissima la visibilità.
Titti andò subito a casa ad avvertire il padre Antonio. Ida e Anna capirono che non c’era un minuto da perdere e tornarono correndo a perdifiato verso il pontile.
“La barca, la barca”, cominciarono ad urlare. “Il gozzo dei pescatori è affondato, dobbiamo aiutarli, stanno morendo, dobbiamo mettere la barca a mare!”.
Non fu facile spiegarsi, tra l’affanno della corsa, la paura per la sorte di quelle persone, la pioggia battente, il vento fortissimo, il buio. Le due ragazze si diressero verso la barca a motore, ma il padre Filippo subito le fermò un no perentorio “non possiamo mettere in mare la barca a motore, è grande e non sarebbe governabile con questa mareggiata”.
Uscendo dalla cala avrebbero infatti preso il maestrale di fianco, rischiando di finire sulla scogliera. Decisero allora di usare la barca piccola. Afferrarono anche dei secchi che erano in dotazione alla barca a motore, nel caso in cui avessero perso in mare quelli della barca piccola. Misero così in mare la barchetta, sollevandola di peso, senza neanche mettere i legni sotto per farla scorrere. Filippo prese saldamente il timone, Ida ed Elisa andarono ai remi, mentre Anna, più leggera e più agile, si occupava di svuotare la barca dall’acqua che le onde del mare ed il cielo vi riversavano incessantemente.
Una scena da tregenda,
pioggia e mare erano un tutt’uno.
Con enormi difficoltà si fecero largo tra le onde, scambiandosi frequentemente i compiti per la stanchezza, in un’oscurità interrotta solo dai fulmini e dai lampi di luce intermittente del faro.
Dopo quasi un’ora di lotta con i marosi riuscirono ad arrivare sul luogo dell’affondamento e videro la barca: era inclinata su un lato e intorno non v’era traccia dei pescatori.
“Dove siete? Dove siete?”, gridarono.
Udirono un lamento provenire da uno scoglio in mezzo al mare. C’era aggrappato uno dei pescatori e un secondo marinaio era in mare, che cercava di aggrapparsi allo scoglio senza riuscirci, scomparendo e ricomparendo tra le onde.
Filippo gridò alle figlie: “Ida, Anna controllate anche il timone, Elisa, tu che sei più forte, vieni con me a poppa e cerchiamo di tirarlo su!”.
Si avvicinarono come poterono all’uomo in mare. “Stai pronta, proviamo ad agguantarlo appena riemerge”, disse Filippo. L’uomo riapparve ed Elisa, sporgendosi dalla barca, riuscì ad afferrarlo per i capelli, ma la violenza del mare glielo strappò dalle mani. Disperata urlò: “L’ho perso, l’ho perso!”. “Non ti preoccupare” le disse Filippo, “Tornerà a galla, ma non lo prendere solo per i capelli, prendilo anche dalle braccia!”. Il naufrago riemerse nuovamente ed Elisa lo afferrò, poi, con l’aiuto del padre, riuscì a trarlo a bordo. Era stremato, semiassiderato e sotto choc, quasi svenuto. Elisa con le sue manone affusolate gli assestò un sonoro ceffone ed egli subito si riebbe.
Filippo gridò quindi al naufrago che era aggrappato allo scoglio di gettarsi in mare, perché loro non potevano avvicinarsi troppo alle rocce per non rischiare di sfracellarsi. Ma l’uomo era terrorizzato e non voleva lasciare la presa. “Se mi lancio affogherò!”, gridava lo sventurato, ma alla fine si convinse. La barca si avvicinò il più possibile, egli si gettò in acqua, nuotò come poté e finalmente venne anche lui issato a bordo. Su un altro scoglio recuperarono il terzo naufrago. Chiesero se ci fossero stati altri pescatori e la risposta fu negativa.
Il ritorno fu difficile come l’andata. Stanchissimi, bagnati fino al midollo, affrontarono le onde cercando di evitare gli scogli.
Arrivati nella cala, un’onda sollevò la barca e la fece arrivare a meta dello scalo, ma subito la risacca la riportò indietro. Una seconda ondata, ancora più sostenuta, la spinse più in alto consentendo all’equipaggio di fermarsi e di posare i piedi a terra.
Poco dopo arrivarono sul pontile i marinai del vicino semaforo, avvertiti da Antonio Lauro dell’accaduto. Anna chiese loro di togliersi le cappotte per coprire i pescatori, che in mare avevano perso gli abiti. “Ma così ci bagneremo”, obbiettò uno dei marinai. “Ma loro sono nudi”, insistette Anna, “qui è buio, ma quando saremo al faro con le luci loro si sentiranno a disagio”.
A malincuore i marinai cedettero le cappotte e i tre naufraghi vennero portati sottobraccio al faro.
Erano sotto choc, tremavano di freddo e di paura.
Filippo mise a disposizione i suoi abiti per rivestirli, Giuseppina ed Assuntina premurosamente offrirono loro tè e camomilla per scaldarli, e quando fu possibile, anche la pasta e fagioli che era stata preparata per la cena.
Nel frattempo erano rientrati anche Fausto e Giuseppe che, sorpresi
dal temporale sulla strada del ritorno, avevano cercato riparo in una grotta alla “Pagliaccetta”. Erano ignari di tutto e la loro principale preoccupazione era stata non far bagnare gli abiti per le nozze.
Venne effettuato un lancio radio dal faro per avvertire le famiglie dei pescatori dell’avvenuto naufragio: i pescatori erano vivi ma il loro gozzo era andato perduto.
Il gozzo. Ora che erano in salvo era quella la causa della loro disperazione. “Come faremo?”, ripetevano, “Come faremo a mantenere le nostre famiglie ora che abbiamo perso tutto? Avevamo appena finito di pagarlo e non abbiamo più nulla!”.
I due pescatori più anziani ed il diciottenne Nicola, ai suoi primi imbarchi, avevano passato la mattinata di quel giorno infernale a sistemare in mare le nasse, collegandole tra loro in “paterne”, costituite da 10 elementi. Le avevano disposte sottocosta sperando in una grossa pesca di aragoste per cominciare a rientrare delle spese sostenute per l’acquisto di quella barca. Quando si erano resi conto che stava arrivando un grosso temporale, avevano provato a recuperare le nasse più in fretta possibile, per spostarle in mare aperto ed evitare che finissero sulla scogliera distruggendosi. Ma ormai era troppo tardi, era arrivato il vento fortissimo, la parte delle nasse che era sulla barca aveva fatto rovesciare il gozzo, tirato giù dalle grosse onde e dalle nasse che erano ancora in mare. In un attimo si erano ritrovati in acqua. Avevano tentato di tenersi aggrappati all’imbarcazione, ma erano stati strappati via dalla forza del mare. Aggrappati agli scogli delle secche, avevano sentito le loro forze venire meno e la loro fine avvicinarsi.
Poi, all’improvviso, illuminata dai raggi del faro, avevano scorto una piccola barca a remi dirigersi verso di loro.
Tutti i protagonisti della serata erano stremati e lividi di freddo. Uno dei due pescatori anziani aveva la febbre molto alta e le sue condizioni apparivano preoccupanti.
Il vento e la pioggia calarono rapidamente, perciò Filippo decise di uscire nuovamente in mare e riuscì in qualche modo a ormeggiare il gozzo dei pescatori, per recuperarlo il giorno dopo. Sperava così anche di tranquillizzare gli addolorati pescatori.
Nessuno dormì quella notte al faro.
L’indomani si decise di chiamare il medico condotto di Cala d’Oliva il Dr. Vindice Silvetti. Questi arrivò con il calesse e si trattenne al faro alcune ore. Poi andò via raccomandando di tenere tutti al caldo.
Il mattino seguente il mare era piatto. Non c’era un filo di vento e il cielo era terso. Ma il gozzo non c’era più. Durante la notte la corrente l’aveva portato chissà dove. Neanche con i potenti binocoli in dotazione al faro lo si riusciva a individuare.
I pescatori erano affranti, uno ripeteva sempre, come una nenia: “Ho nove figli, come farò a sfamarli adesso?”.
Filippo decise allora di andare a cercare il gozzo dei pescatori usando la barca a motore, accompagnato da alcune delle figlie e da altri volenterosi. Valutò la direzione delle correnti e si diresse dove pensava di poterlo ritrovare. Vagarono a lungo, ma dell’imbarcazione non c’era traccia.
Dovettero arrivare fin quasi in Corsica, prima di poter avvistare l’imbarcazione, quasi completamente sommersa. Fu molto faticoso iniziare lo svuotamento, per fare in modo che la prua rimanesse leggermente sollevata dall’acqua, così da poterla legare alla poppa della loro barca e trainarla. Anna si mise a poppa e con un secchio la svuotava di continuo. Procedettero pianissimo, perché il gozzo era più grande della loro barca, ed essendo pieno d’acqua era pesantissimo ed essi temevano di fondere il motore.
Il ritorno al faro richiese tutta la mattinata. Decisero di dirigersi alla banchina di levante, perché c’era corrente di maestrale e Filippo temeva che il mare potesse rinforzare.
Nel frattempo, al faro i febbricitanti pescatori scrutavano l’orizzonte con i binocoli sperando in un miracolo, finché uno di essi urlò: “U guzzu mannu!”, riconoscendo la sagoma della propria imbarcazione. L’entusiasmo gli fece svanire la febbre.
Tutti si precipitarono subito alla banchina di levante, Filippo fece appena in tempo a rientrare al faro che il motore della barca fuse.
Si avvertì Stintino che anche il gozzo era stato recuperato. Alcuni pescatori partirono dal villaggio per trainarlo e portarlo in cantiere per le necessarie riparazioni. L’attrezzatura da pesca era andata perduta e il motore dovette essere sostituito.
Il gozzo fu comunque pronto per il 20 settembre, così da essere
impiegato per accompagnare, da Cala d’Oliva al faro, gli invitati al matrimonio di Elisa e Fausto, al quale ovviamente presero parte anche i tre pescatori. Anche altre barche di Stintino si unirono al corteo nuziale.
Tempo dopo, Filippo venne contattato dalle autorità, in quanto la legge stabiliva che aveva diritto a un terzo del valore della barca che aveva recuperato. “Posso rinunciare?”, chiese lui. “Sarebbe la prima volta”, gli risposero.
Anche le ragazze Vitiello sopportarono la febbre per diversi giorni, e per un po’ di tempo nutrirono una certa apprensione nell’affrontare il mare molto mosso, ma poi tutto tornò come prima.
Anni dopo Filippo e le figlie seppero che erano stati proposti per il conferimento di una medaglia per il salvataggio.
Vennero invitati a La Maddalena dove, nel corso di una cerimonia solenne, venne conferita loro una medaglia di bronzo al valor di Marina con questa motivazione:
“In occasione di violento improvviso fortunale, con piccola imbarcazione a remi e nonostante la sopravvenuta oscurità e le avverse condizioni del mare, coadiuvava le sorelle ed il genitore a trarre in salvo tre naufraghi di barca da pesca, dimostrando alto senso di altruismo e di perizia marinaresca.
Acque del faro di Punta Scorno – 15 settembre 1953.”
(Motivazione contenuta nell’attestato di conferimento della medaglia ad Anna Vitiello, 18 maggio 1956)
La sera del conferimento dell’onorificenza le giovani furono invitate al ballo al circolo ufficiali della Maddalena, vedendo la medaglia appuntata sulla giacca, alcuni chiesero se fossero parenti di qualche caduto “No…”, rispondevano le sorelle Vitiello, “… abbiamo fatto un salvataggio”.
“E non diteci che avete salvato degli uomini”, continuavano scherzosamente quelli.
“Proprio così!”, confermarono divertite le ragazze."
La Maddalena 18 -05- 1956 conferimento medaglia di bronzo al Valor di Marina ad Anna VitielloDocumento olografo di Antonio Lauro
Filippo Vitiello (Archivio A. Lauro)