Silverio Conte detto Facciabruciata , nato nel 1917, era un grande pescatore ponzese ed ha raccolto le sue parole in un'intervista Gino Usai che ho trovato nel suo libro "I pescatori ponzesi in Sardegna dal Settecento ai giorni nostri".
Racconta una vita di coraggio e sacrifici, veramente toccante.
"Io ho cominciato a fare il pescatore all'età di otto anni con i miei zii che pescavano nell'isola tunisina che noi chiamavamo in dialetto Jàlita, cioè La Galite , era il 1925 ed ero già orfano di mio padre Carmine, morto che io avevo appena compiuto tre anni. Ora toccava a me tirare avanti la famiglia.
Ero un ragazzo e avevo la faccia già sfigurata dal fuoco per via di un incidente che ebbi in casa con l'acqua bollente. Inutili furono le cure dolorosissime nell'ospedale di Napoli. Di quell'incidente mi è rimasto il volto deturpato e il soprannome Facciabruciata.
Fatta la festa di S. Silverio dei pescatori nell'ultima domenica di Febbraio, m'imbarcarono sopra un gozzo per la campagna di pesca all'aragosta in Sardegna. Partimmo insieme ad una decina di gozzi. Rotta per Anzio, poi costa costa arrivammo a Civitavecchia, dove comprammo le gallette.
Dopo due giorni di navigazione a vela e a remi, giornate intere passate a vogare, arrivammo a Giannutri, e siccome il mare era buono, puntammo direttamente su Giglio dove ci fermammo per una sosta. Io soffrivo il mal di mare ed ero stanchissimo, ma mi sentivo grande vicino a zio Tore e a tutti quei pescatori, e non vedevo l'ora di arrivare in Sardegna.
A Giglio facemmo rifornimento di viveri: acqua, legumi e il pane. Poi puntammo su Montecristo dove ci fermammo a pescare con la lenza i pesci da mangiare: perchie, scorfani ed altro. Io presi tante perchie ed ero felicissimo. Poi il tempo si guastò e restammo fermi per qualche giorno. Quando il mare calmò, puntammo su Portovecchio, in Corsica. Superate le bocche di Bonifacio, che ci fecero torcere (là è sempe maletìempo!) arrivammo a Santa Teresa di Gallura e ci fermammo a pescare, dopo una quindicina di giorni di navigazione. Là c'erano già tanti pescatori ponzesi che pescavano quelle acque, fino all'Asinara, dove i fondali erano pieni di aragoste.
Poi riprendemmo la navigazione e dopo una sosta a Bosa arrivammo a Carloforte. Pescammo alcuni giorni e partimmo per La Galite, rimpetto alle coste della Tunisia.
Quando giungemmo a La Galite, nell'aprile del 1925, era successa una grave disgrazia: qualche settimana prima il micidiale Ghibli travolse e affondò nella rada sette burchielli ponzesi. Affondarono il "S. Pietro" di Pietro Sandolo; la "Santa Caterina" di Domenico Mazzella e il "S. Francesco" di Evangelista Feola.
Si salvò solo il "S. Ciro" di Ciro Conte, mio zio, che quando vide montare il vento e ingrossare le onde subito salì a bordo con l'equipaggio, fece alzare le vele e ordinò di salpare velocemente senza neanche tirare l'ancora, che venne abbandonata sul fondo. Sfidando le onde in tempesta, riuscì ad aggirare l'isola e a mettersi a ridosso, salvando così la barca e gli uomini. Ma ci riuscì, si disse, perchè Ciro Conte era in combutta con gli spiriti maligni.
Per fortuna in quel naufragio generale non ci furono morti, ma vedere quei relitti che affioravano sul fondale basso e altri resti sparsi sulla riva era una cosa che ci straziò e ci riempì di paura. Ricordo la disperazione di Pietro Sandolo che perse il "San Pietro" e i racconti che mi fece il giovane Silverio Aprea, che nel tentativo di avvicinarsi con una scialuppa al burchiello per salirci su, venne scaraventato in mare da un'onda che capovolse il canotto. Travolto dai cavalloni riuscì a raggiungere la riva e a salvarsi grazie alla sua abilità di nuotatore.. Quel naufragio fu una grave perdita per la marineria ponzese. Mai era accaduta una disgrazia simile.
La Galite era abitata da una colonia di ponzesi e da qualche siciliano, uno dei quali sposò una ponzese. Giungevano lì pescatori anche da Carloforte. Non esisteva un porto sull'isola e le barche davano la fonda in una rada. Di notte, onde evitare la sorpresa del maltempo, tiravano i gozzi a secco e lì dentro l'equipaggio pernottava. Quando il tempo era particolarmente brutto trovavano rifugio nelle grotte dei coloni ponzesi stanziali, la famiglia D'Arco ed altri. Noi però non abbiamo mai avuto questo piacere, dormivamo sulle barche all'addiaccio.
D'estate per sottrarsi al pesante lavoro e alla calura, andavamo all'ombra degli scogli, coi piedi a mare, ove era possibile imbattersi con estrema facilità in qualche stupenda aragosta. A quel tempo il mare era molto pescoso.
Pescavamo aragoste e le mettevamo nei marruffi, cinque quintali a marruffo, poi aspettavamo l'arrivo dei bastimenti che li caricavano nei vivai e li portavano a Marsiglia. Il 15 agosto in Francia veniva decretata la chiusura della pesca all'aragosta e così terminava la nostra campagna di pesca.
Per mangiare salavamo i colli di aragoste, ma anche musdee e scorfani. Per ottenere l'essiccatura i pesci venivano immersi nel sale e poi esposti al sole per 15 giorni; quando erano ben essiccati venivano riposti in sacchi e conservati per l'inverno.
Terminata la campagna di pesca i gozzi venivano issati sui bastimenti e facevano ritorno a casa. Quel 1925 la campagna di pesca venne così ricompensata: 5 lire, mezzo sacco di sale e un pò di pesci salati per l'inverno a ciascun pescatore, a me toccò la metà. La vita era durissima, i pescatori gettavano il sangue e pativano la fame. Quelli erano i tempi brutti, ma eravamo sempre sotto la protezione della mano santa di S. Silverio. I pescatori ponzesi ovunque si trovassero il 20 Giugno festeggiavano. In quel giorno santo nessuno pescava, nessuno metteva la barca in mare. La devozione dei pescatori nei confronti di S. Silverio era talmente grande che ognuno di loro portava a bordo la sua immagine e lo considerava parte dell'equipaggio stesso.
In segno di devozione i pescatori, decisero di donare a S. Silverio un'aragosta d'oro. Ma questo succedeva quando esisteva la fede vera!
La Galite è un'isola bellissima.
'U primmo punzese ca jette a La Galite cient'anni fa fuie Antonio D'Arco. Aveva acciso 'nu cuatto Ponza e se ne fujette chi curallini 'i Torre 'u Grieco'.
Poi pian pianino arrivarono altri ponzesi con le famigle e colonizzarono l'isola. Quando arrivammo noi a La Galite vi erano già molti ponzesi. Vivevano nelle grotte che avevano scavato nel tufo, come si faceva a Ponza. Allevavano vacche, capre, pecore, maiali, conigli, galline. Facevano il formaggio, coltivavano il grano e i legumi e facevano pure il vino. Vi era anche una sorgente d'acqua fresca che sgorgava in una grotta. Costruirono una chiesetta, sull'altare vi misero la statua di S. Silverio e il 20 Giugno veniva fatta la solenne processione sulla spiaggia. La domenica mia zia, Concetta Conte, chiamata ' sciammerica, sorella di mio padre, faceva pure la messa e confessava persino!
I ponzesi sono rimasti a La Galite fino al 1957, poi sono andati tutti via lasciando sul posto solo qualche famiglia che riuscì a sopravvivere ancora per un decina d'anni. Poi anche questi ultimi ponzesi lasciarono l'isola e portarono via anche la statua di S. Silverio.
Il mestiere del mare è molto duro e molto pericoloso, ma dà anche tante soddisfazioni.
Dopo la guerra mi sono sposato, ho messo su famiglia e mi sono fermato a pescare a Ponza.
Prendevamo tanti pescispada con le coffe, poi siamo passati alle reti, ma nelle maglie incappavano anche tanti delfini. A me dispiaceva: io ho sempre amato i delfini. I delfini sono i veri alleati dei pescatori. Bastava seguirli nella loro navigazione per trovare in gran quantità aguglie, castardelli, sarde, alici e rotondi, pesci a cui loro davano la caccia. I delfini ne sono ghiotti e li inseguono, costringendoli a emergere dal fondo del mare e ad assembrarsi a forma di palla. A quel punto era facile per i pescatori gettare le reti e fare gran bottino. A volte però nella rete finivano anche i delfini, i quali non essendo buoni da mangiare venivano liberati. A volte prima di liberarli venivano marchiati con dei tagli sulle pinne per essere poi velocemente riconosciuti come validi compagni di pesca in successivi incontri. Quando infatti venivano avvistati, i pescatori avevano la certezza di fare una buona pesca.
Tanti anni fa a Porto S. Stefano prendemmo un delfino vivo. Sul mercato un delfino veniva pagato 50 lire, una cifra irrisoria. Più volte invitai l'equipaggio a rimetterlo in mare, inutilmente. Durante la navigazione per tenerlo in vita lo sistemai all'ombra, ma quando la calura diventava forte il delfino emetteva lamenti simili a quelli di un bambino. Io con delle secchiate d'acqua fresca gli alleviavo le sofferenze e lui smetteva di piangere. Giunti a Ponza, chiesi insistentemente di liberarlo; questa volta la mia richiesta venne accolta e il delfino venne gettato in mare. Prima di rimetterlo in libertà lo segnai cucendogli sulla pinna un lacciolo colorato, riconoscibile a distanza. Appena messo in acqua il delfino sembrò impazzire di gioia, fece molti giri intorno alla barca e poi, puntando verso il faro della Guardia, sparì nel mare azzurro. Era una femmina e gli diedi il nome di Rosetta.
Poi comprai un gozzo di 9,5 chiamato "Elisa". Gli diedi il nome della mia fidanzata, Elisa Albano, che poco dopo morì improvvisamente di un male sconosciuto, aveva solo 18 anni. Quindi sposai la sorella Silveria. Nel 1962 vendetti il gozzo a Giuseppe Vitiello detto Avemmaria e mi feci costruire dai fratelli Scipione a Formia una barca da pesca con una stazza di 17 tonnellate, con un motore diesel di 150 cavalli. La chiamai "Grande Elisa" e fu una gioia indescrivibile mettere a mare quel gioiello che mi costò una vita di sacrifici.
A quel tempo era la barca più bella e più grande di Ponza, il mio orgoglio. D'estate andavo a pescespada e d'inverno a merluzzi."
(Intervista di Gino Usai a Silverio Conte- Ponza, 26 agosto 1996)
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