"Questo lo racconta Luigi Conte, vecchio capitano, che del mare ha conosciuto "vita, morte e miracoli":
"Quando mi imbarcai, o meglio, quando i miei genitori mi fecero imbarcare sulla S.Anna non avevo ancora 14 anni. Avevo fatto richiesta del libretto di navigazione e in attesa del rilascio venni munito del foglio di ricognizione.
Il S.Anna era un piccolo bastimento a vela con una stazza inferiore alle 100 tonnellate.
L'equipaggio era composto da 6 uomini: il capitano, Silverio Onorato, era anche l'armatore. Con i fratelli aveva installato un deposito di generi alimentari a La Maddalena e provvedeva a rifornirlo con la sua barca. La merce, pasta, patate, conserve alimentari, frutta ed altro, veniva caricato nei porti di Castellammare e Torre Annunziata.
Gli altri componenti l'equipaggio erano due di Le Forna e due di Ponza Centro. Tra questi vi era Falconieri, il nostromo. Un marinaio eccezionale. Capace, accorto ma soprattutto maestro e padre.
Da lui ho appreso i primi rudimenti, le prime nozioni. Mi ha insegnato soprattutto a non aver paura del mare ma a rispettarlo. Gli sono stato e gli sono ancora oggi profondamente grato per l'ossatura che è riuscito a crearmi.
Quel viaggio, dal Golfo di Napoli alla Sardegna, era la seconda mia traversata. La prima era stata normalissima.
Avevamo caricato la merce nei due porti partenopei. La stiva era piena. Sulla stiva, coperti da una incerata avevamo sistemato i sacchi di patate.
Da Torre Annunziata dirigemmo su Ponza dove fummo costretti a sostare per due giorni perchè il vento non era favorevole. Dormivo a bordo e all'alba del terzo giorno venni svegliato da passi rumorosi che provenivano dalla coperta. Misi la testa fuori dal "tampuccio" e notai il capitano e gli altri marinai.
Falconieri mi disse: vestiti che si parte.
In un lampo mi infilai i calzoni, il maglione e il solito camisaccio della Marina Militare che era di mio padre e mi copriva come il saio di un monaco. I piedi, come sempre, scalzi. Mi arrotolai i calzoni. Ero pronto.
Una leggera brezza di vento soffiava da Greco-Levante.
Mettemmo il canotto in acqua. Ci serviva per tirar fuori dalla banchina il veliero. I due marinai vi presero posto. Ero attentissimo agli ordini.
Quando fummo al centro del porto, rimettemmo a bordo la lancia e pensammo alle vele.
Falconieri comandava mentre il capitano era alla barra del timone.
Con una bordata ci avvicinammo alla Ravia. Ne eravamo talmente vicino da rasentarla quando il capitano tirò a sè la barra del timone. La barca girò come su un perno mettendo la prua sul Faraglione della Madonna.
Seguii questa manovra con attenzione e con paura perchè mi sembrava che andassimo a cozzare contro la Ravia.
Tra la Ravia e il Faraglione della Guardia issammo tutte le vele e rassettammo la coperta per la navigazione.
Il cielo, in quel freddo mattino di gennaio, era talmente terso e limpido che la costa continentale si stagliava nettamente all'orizzonte. Quando giungemmo sul Faro della Guardia e mettemmo la prua per la Sardegna, eravamo diretti a La Maddalena, il sole faceva capolino alle spalle della Botte.
Fino a mezzogiorno la traversata proseguì tranquilla. Il vento, sempre da levante, rifrescava dolcemente. La barca, quasi sollevata dalle vele sempre più gonfie, scivolava sul mare increspato. I turni di guardia si avvicendavano. Io ero abituato al nostromo e le ore che trascorrevo con lui sembravano che volassero. Era una lezione continua. Il mare, il vento e il firmamento erano i miei libri e lui il mio maestro.
Fu nel pomeriggio che le cose cambiarono. Il vento aumentò di intensità. Il mare era tutto " pecurèlle", increspato come un vello. Il timone non poteva essere più guidato a mano e Falconieri gli attaccò i due paranchi, uno a destra e l'altro a sinistra, pronti per l'uso. Ad essere sinceri avevo paura. Mi ero "accucciato" sulla sinistra del nostromo che aveva tolto di mezzo lo sgabello e timonava all'impiedi avendo in ciascuna mano la cima del paranco. Di tanto in tanto alzavo gli occhi da terra e lo guardavo nel viso. Dritto come una statua con un viso nero, bruciato dal sole e dalla salsedine. In bocca aveva l'immancabile mezzo toscano che, di tanto in tanto, quando aspirava eruttava faville come il cratere di un vulcano. Incontrando il mio sguardo lesse negli occhi il mio stato d'animo. Dandomi una pacca sulle spalle mi fece alzare da terra dicendomi: rimani in piedi e guarda.
Le onde aumentavano in volume e in forza sotto la spinta di un vento sempre più impetuoso. La barca sembrava un'altalena. Più che un colloquio tra il capitano e il nostromo ci fu uno sguardo d'intesa. Tra vecchi lupi di mare si capivano a volo. Chissà quanti momenti momenti del genere avevano passato.
Vennero chiamati i due marinai che riposavano e che saltarono in coperta come scoiattoli. In men che non si dica vennero afferrate due mani di terzaruolo della vela maestra. La barca con meno velatura sembrava andasse meglio.
Quando in coperta tornò la calma ed eravamo rimasti soltanto io e lui il nostromo mi spiegò il perchè della manovra. Pensavo che la "giostra" fosse finita ed invece non fu così. Anzi. Il vento più che impetuoso diventò furioso. Si accasciava sulle vele facendo schioccare le cime come corde di violino. Il mio sguardo era fisso sulle vele quando mi accorsi che qualcosa di anormale stava succedendo. Non ebbi il tempo di gridare: Là, per una lacerazione che avevo visto nel trinchetto, che la vela venne portata via dal vento. Lo strappo fu così rumoroso che chi stava sotto coperta saltò sul ponte come ad un imperioso richiamo.
Falconieri lasciò il timone al capitano e corse a prua con gli altri. Prendendomi per un braccio mi impose di seguirlo. Le gambe mi tremavano.
In pochissimo tempo rimettemmo la vela che il vento aveva strappato. Pur avvinto dalla paura feci di tutto per avere i complimenti del nostromo che non tardarono.
Quando tornammo a poppa e rimanemmo nella nostra spaventosa solitudine mi disse: Uagliò nùn avè paùre. Nùje a fùnne nù ghiàmme. A vàsce tenimme u sarvaggènte. E' San Silvèrie, tu nùn è viste? (Ragazzo non aver paura. Noi non affonderemo mai perchè giù teniamo il salvagente. E' San Silverio, non lo hai visto?)
Questo interrogativo mi spinse ad andare sotto coperta per vedere.
In un angolo della minuscola saletta, se così può chiamarsi un metro quadrato di spazio, bloccata alla parete da due piastrine di ferro, una statuetta di San Silverio. Lo guardai con riverenza mista a timore ma notai nei suoi occhi uno sguardo dolce e rassicurante che mutò, in un attimo, il mio stato d'animo. Non ebbi più paura tanto da meritarmi ancora gli elogi del nostromo quando, all'alba seguente, attraversammo lo stretto tra Capo Figari e l'isolotto Mortorio. Il bassofondo creava marosi spaventosi che inondavano da ogni lato quel piccolo fuscello. Eseguivo gli ordini del nostromo come un marinaio consumato. In quell'acqua che attraversava la coperta del bastimento guazzavo a piedi nudi. Gli stivali non li conoscevo ancora. Non ero io a dominare quei marosi e a muovermi come un marinaio abituato a simili avversità.
Era Lui, quella figura che si impresse tanto fortemente nella mia mente da non uscirne più, che mi guidava, mi incoraggiava, mi rasserenava."
Sono passati da allora quasi settant'anni e Luigi che reca ancora sul viso i segni di salsedine rievoca questo suo battesimo come se fosse successo un'ora prima. E come allora gli occhi gli si inumidiscono e una lacrima gli scende sul viso."
(Racconto tratto dal libro di Ernesto Prudente "S.SILVERIO patrono dei ponzesi")
Il capitano Luigi Conte
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