Ettore Settanni descrive Le Forna, isola di Ponza, come luogo di pace e tranquillità. Erano gli anni '50 visto che il brano è tratto dal libro "Isole del mito PONZA VENTOTENE" pubblicato nel 1960.
Lo trovo interessante.
Ecco cosa scrive Settanni:
"Fino a qualche anno fa, prima cioè che venisse iniziato il servizio della corriera per Le Forna, a questo paesello si andava via mare. Perchè era più comodo, dato che non si poteva giungervi con altri mezzi, se non a piedi. Chi poi preferiva intraprendere tal viaggio, lo faceva davvero a piedi scalzi, portandosi sulle spalle le scarpe legate con lo spago, per procedere più spedito nel cammino certo non breve, oppure per economia, perchè un paio di scarpe, a Le Forna, ieri era un patrimonio.
Le barche adibite alle comunicazioni via mare partivano dal porto per fare scalo a Cala dell'Inferno, da dove poi bisognava salire su. Cala dell'Inferno è un paesaggio unico al mondo: nella colata nivea della liparite, incastonata fra i massi rossicci di tramontana e il roccione bruno seppia a levante, è scavata una scaletta dai tempi romani: una scaletta che passa sotto un arco, quasi un finestrone gotico, ed è fiancheggiata e sormontata da blocchi candidi, simili ora ad una straordinaria flora fossilizzata, ora a fantastiche chimere medioevali. E' come se per un oscuro sortilegio, in una notte tempestosa tutte le chimere di Notre Dame avessero lasciato i loro piedistalli parigini per venirsi a sparpagliare su queste rocce, addormentandosi per sempre col sole negli occhi.
Una volta compiuta questa ascesa, in un ambiente da paesaggio lunare, si giunge su, al paese de Le Forna, dirimpetto alla chiesetta del villaggio.
Tremila anime circa, a Le Forna, che vivono in dipendenza dai venti e dal mare. La natura non è stata prodiga di spiagge, su questo lato dell'isola: anzi, ce n'è appena una modestissima, ma i Fornesi hanno scavato grotte e grotticelle nel tufo, ove difendono l'unico loro mezzo di sussistenza dalle furie del mare. Qui, la vita è come assente per una buona metà dell'anno. Verso gli idi di marzo, secondo una costumanza che si perde nei tempi, i pescatori, che sono i quattro quinti della popolazione maschile, armano i loro bastimenti e partono alla pesca, chi del corallo, chi delle aragoste. Qualche giorno prima, essi hanno portato in giro, fra i cortili candidissimi di calce, il loro Santo protettore: il buon San Silverio Papa, dal viso di vecchietto che la sa lunga e non si stupisce di niente, preferendo giocherellare, incantato, con l'aragosta da una parte e il ramoscello di corallo dall'altra, che i pescatori fornesi gli hanno messo nelle manine guantate di rosso.
Quando l'ultimo gozzo scompare dietro l'isola di Palmarola, dirimpetto, le porte delle case si chiudono e le finestre si riempiono d'ombra. E' allora che le agavi, numerosissime qui, alzano i loro colli splendidamente fioriti, nell'approssimarsi della morte. Da questo giorno, le strade diventano dominio assoluto dei ragazzi e delle lucertole, e le apparizioni delle giovani donne sono sempre frettolose, come se il solo passo fosse un'offesa: una scia di peccato che si lasciano dietro nell'aria. Il largo mare de Le Forna, dominato a un'estremità dai tre blocchi dei Faraglioni di Palmarola e dall'altra dal profilo nervoso del Circeo bluastro, è diventato lo specchio di tutti i pensieri delle donne che passano le loro giornate a guardarlo: sulla sua distesa esse leggono i buoni e cattivi presagi della pesca. Da poco tempo, accanto alla parrocchia, è sorto un campanile bassotto, dalla cui sommità Don Gennaro, parroco dal cuore d'oro, e unico prete del villaggio, scruta per primo il ritorno dei suoi marinai e predice infallibilmente l'esito della campagna di pesca dal modo come le barche ritornano a casa: il filo della vela curva sulle onde, il vento che lo porta, la speditezza delle manovre d'attracco, e cento altri minimi dettagli, che parlano prima delle voci, anche per poco assenti.
Il villaggio de Le Forna, con le sue rocce riarse, bruciate dal sole e vive solo di fichidindia e di agavi, coi campicelli a terrazza su cui la vite bassa, unica fioritura, si accuccia sotto i muretti rudimentali, per farsi coraggio contro i venti implacabili, non offre altri scorci di ampiezza o di rilievo. Non c'è peccato, in questa contrada della povertà più francescana, lieta e serenamente bella. Ovvero, uno solo...se tale si può chiamare. Volendo dargli un nome, lo chiameremo "la folle eresia", che ha per ostello un gruppo di casette a tergo del cosiddetto Forte Inglese, da dove il terribile Napier un tempo folgorava i Sanculotti, in fuga verso gli antri e i lidi più sicuri di Sperlonga. Ebbene, in una di queste casette è sorta una nuova chiesa, per volontà di un ex-emigrato, ritornato dalla America, che ne è diventato il Pastore e che senza eccezioni, d'estate come d'inverno, battezza i suoi accoliti in una larga vasca cilestrina del mare sottostante. La piccola congrega conta una decina di anime doppiamente battezzate, e vive come una casta privilegiata in mezzo agli altri. Questo culto, avulso dalle radici di questa terra povera e tanto illuminata da una fede millenaria, ci dà lo stesso accoramento sconfinato degli alberelli solitari, il cui seme proviene chissà come e da dove, gobbi sotto le raffiche che spazzano queste balze.
C'è tanta pace a Le Forna. Forse troppa, perchè la morte stessa ha perduto il suo recondito senso di abbandono e riposo. Infatti a Le Forna, che pur dista otto chilometri da Ponza centro, non c'è cimitero. Le bare vengono trasportate a spalle per tutto questo lungo cammino fino al cimitero romano di Ponza. Il corteo, senz'ombra di tristezza, si snoda per la strada serpentina, preceduta da Don Gennaro che fa da battistrada infaticabile, a passo d'assalto, quasi si affrettasse, lui che tiene la contabilità di lassù, a deporre nelle mani del Signore quest'anima fornese, già addormentata in anticipo, per metà dell'anno, dalla cui pacifica vita di questa terra - una vita che, in sostanza, è piuttosto un sogno."
Un pò di foto di Le Forna com'era tratte dall'Archivio fotografico di Giovanni Pacifico